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  • Immagine del redattoreDott. Francesco Marsilli

La "guerra" al coronavirus

Nelle ultime settimane l'emergenza coronavirus è raccontata come fosse una guerra, ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di "trincea" negli ospedali, di "fronte" del virus, di "eroi" che la affrontano e la configgono, vengono rilasciati puntualmente bollettini sugli ultimi caduti nella sfibrante battaglia quotidiana alla pandemia globale. L'unica risposta che conosciamo ad una minaccia da cui ci sentiamo attaccati è la guerra, con tutte le metafore che si porta dietro. Omero forse è stato il primo a innescare questo gioco. Nel primo canto dell’Iliade il dio Apollo, per vendicare l’offesa subita dal sacerdote troiano Crise, decide di diffondere una pestilenza nell’accampamento degli achei. E come lo fa? Con arco e frecce: “Nove giorni volâr nel campo acheo le divine quadrelle”, per nove giorni volarono nel campo acheo le divine frecce. In pochi versi Omero stabilisce una metafora della malattia che, più di duemila anni dopo, continua a essere innervata nel nostro modo di intendere il male. La malattia è un atto di guerra, una rappresaglia, una punizione; chi la combatte è eroico, chi cade è sconfitto, martirizzato. Il concetto di doppia cittadinanza Nel suo saggio sulla diffusione e sul contrasto all'hiv (L’aids e le sue metafore, 1989) Susan Sontag spiega perché ci viene tanto facile affrontare un’emergenza sanitaria come fosse una guerra anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone. La guerra è una delle poche attività umane a cui la gente non guarda in modo realistico, ovvero valutandone i costi o i risultati. In una guerra senza quartiere le risorse vengono spese senza alcuna prudenza. La guerra è pura emergenza, in cui nessun sacrificio sarà considerato eccessivo.

Trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate. I malati diventano le inevitabili perdite civili di un conflitto e vengono disumanizzate appena “perdono il loro diritto di cittadinanza da sani per prendere il loro oneroso passaporto da malati”. Alla metafora della guerra Sontag sostituisce quella della cittadinanza.

Appena nasciamo abbiamo una doppia cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno dei malati. Sebbene tutti preferiremmo usare sempre il passaporto buono, presto o tardi saremo obbligati, anche se per breve tempo, a identificarci come cittadini di quell’altro posto.

Sontag si concentra anche sulla figura del malato che è la prima vittima delle metafore della malattia. Ammalarsi vuol dire essere invasi dal nemico e morire è una sconfitta. . Anche oggi, in Italia, quando si parla di cancro non si riesce a fare a meno della metafora del “guerriero che sconfigge il male”, senza fare i conti con il peso psicologico che ogni malato e ogni suo familiare si prende sulle spalle dopo una diagnosi infausta di tale portata. Liberarsi da una malattia, superarla per tornare a vivere “tra i sani”, non è una questione di valore militare, di forza, di costanza, di eroismo del singolo; è una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie e anche, purtroppo, di fortuna. Applicare la metafora della guerra e della sconfitta a una malattia significa caricare il malato di sensi di colpa e, dice Sontag, ostacolarlo nel suo percorso di guarigione.


Un articolo del Guardian di qualche mese fa, uscito molto prima dell’emergenza del coronavirus, denunciava come le metafore della guerra applicate al cancro abbiano un effetto inibitorio nei pazienti che si sentono da subito sconfitti, condannati a morte fin dalla prima diagnosi. La metafora del paese in guerra e del singolo malato-eroe è particolarmente rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo oggi. Ogni giorno che passa ci accorgiamo che il Covid-19 non conosce confini e richiede una risposta unitaria a livello globale. Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Abbiamo urgente bisogno di nuove metafore e di nuove parole per raccontarci i giorni che stiamo vivendo; quelle vecchie rischiano di trasformare in un incubo non solo il presente ma anche, e soprattutto, il futuro che ci aspetta.



Dott. Marsilli Francesco




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