Torniamo puntuali con il terzo articolo della serie "Perché siamo tanto restii ad andare dallo psicologo?". In questo caso la motivazione, come altre che vedremo più avanti, deriva non tanto dalla persona singola ma dalla società che ci circonda. Questo presupposto può farci capire perché questi tipi di motivazioni, legate alla percezione sociale, agli stereotipi e alla cultura popolare sono le più difficili da contrastare.
Terza Motivazione:
"Andare dallo psicologo è da sfigati"
Il 70% degli Italiani rifugge la figura dello psicologo. Lo dice un sondaggio dell'Eurodap svolto tra il 2016 e il 2017 nel quale si sottolinea come la gran parte degli italiani non riconosca l'importanza di questa figura ed interpreti i comportamenti disfunzionali delle persone come capricci o mancanza di volontà personale, cadendo irrimediabilmente nel granitico stereotipo di manicomiale memoria dello psicologo-strizzacervelli utile solo per i “pazzi”. D'altronde la cosa non ci deve stupire; se sommiamo infatti la lunga ombra delle opere di S.Freud, l'abuso decennale delle strutture manicomiali (a inizio dello scorso secolo a Torino, al Cottolengo, potevi entrare di soppiatto pagando un biglietto, come al circo) che ancora oggi dominano l'immaginario culturale della psicologia italiana, la cultura binomiale "l'uomo che non deve chiedere mai" e "la sensibilità è per le femmine" possiamo capire come, nonostante tutti i processi e le evoluzioni culturali e sociali avvenute negli ultimi cinquant'anni della storia d'Italia, ancora oggi quando una persona ha un problema fisico gli viene naturale rivolgersi a un medico mentre quando il problema è psicologico ci si sente un po' sfigati a chiedere aiuto.
Un'indagine svolta dall'Enpap (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi) può aiutarci a dare un sapore più moderno a tutta la questione. I risultati di questa ricerca hanno infatti evidenziato come la propensione a rivolgersi all'aiuto psicologico sia proporzionale al crescere del livello di studio: il 14,8% dei laureati contro il 7,4% dei diplomati alla scuola media superiore, e solo l’1,2% di coloro che hanno la licenza elementare. Vista la povertà di mezzi economici dei laureati negli ultimi 5-10 anni, la questione pecuniaria potremmo pensare che centri poco (ad oggi ci sono svariati mezzi più abbordabili delle terapie private). Potremmo quindi pensare che un maggiore livello culturale porti ad una maggiore capacità di introspezione e curiosità di confronto con l'altro? e invece no: nonostante il livello di studio, molte persone rinunciano allo psicologo non per sé stesse ma per il giudizio degli altri. La "moderna" società vede ancora lo psicologo come ultima spiaggia ma, a ben vedere, questo è merito della società stessa che molte volte crea e poi disprezza ciò che crea. In Italia è infatti totalmente assente un discorso sulla prevenzione psicologica; le persone sono spinte a non occuparsi del proprio benessere psicologico fino a che questo risulta talmente invalidante da non permettere più un normale e sereno svolgimento della vita quotidiana.
Sorge spontanea una considerazione: i disturbi psicologici invalidanti non sorgono da un giorno all'altro ma sono il risultato di stratificazioni di problemi, pensieri ricorsivi, adattamenti e soluzioni che, se sembrano apparentemente innocui, hanno finito col creare o peggiorare il problema.
E' l'assenza di una cultura della prevenzione psicologica che fa andare le persone dallo psicologo quando queste sono "all'ultima spiaggia", ma andare dallo psicologo è da sfigati quindi non ci si va fino a che si è effettivamente all'ultima spiaggia. E quando ci vai sei pure matto. E sfigato. E' il paradosso nel paradosso.
Forse possiamo meglio capire con un esempio: facciamo finta che lo stesso processo che applichiamo al dolore mentale sia portato nel mondo della medicina, nel mondo fisico: mi fratturo un polso, fa male, ma dal medico non ci vado perché se no gli altri mi dicono "è da sfigati", "che fai la femminuccia? non lo sopporti un po' di dolore?". E allora penso che si, in fondo che vuoi che sia, posso farcela da solo. Poi il polso pian piano da gonfio diventa viola, ma io resisto "non voglio sentirmi sfigato! e non voglio che gli altri pensino che io lo sia!". Poi alla fine succede che non solo il polso, ma tutto l'avambraccio va in cancrena (toh, che strano!), a quel punto per non rischiare di perdere il braccio vado dal medico. Ovviamente mi lamento pure di quanto costa, di quanto sarà lunga la riabilitazione (se magari arrivavi un pò prima era tutto più facile e meno costoso), chiedo pure uno sconto perché "sa dottore, di questi tempi..." mi curano miracolosamente il braccio, esco dall'ospedale e i miei amici mi danno pure dello storpio mentre faccio la riabilitazione.
Chi scrive si trova orgogliosamente da tutte e due le parti della barricata: sono paziente e psicologo. E sono profondamente convinto che chiedere aiuto per uscire da una sofferenza psicologica sia l’atto più coraggioso che si possa fare. E' il segno di una raggiunta maturità mentale accettare tutte le parti di tè stesso, accettare il fatto che il cambiamento è l'unica costante che davvero ci permettere di vivere bene con noi stessi e con gli altri. Necessitiamo tutti di comprendere che l’obiettivo di ogni terapia è di aiutare la persona a rendersi capace di gestire e orientare la propria vita secondo le proprie scelte, in piena autonomia e libertà. La società dovrebbe, al contrario, incoraggiare la scelta dell'aiuto psicologico, non solo nei momenti di crisi, ma sempre!. Andare dallo psicologo è dimostrare a noi stessi che vogliamo essere felici, che siamo disposti a trovare nuovi modi per farlo, a prenderci cura di noi stessi e delle persone che ci circondano (quanta sofferenza c'è in una famiglia con un membro patologicamente instabile?).
Per cambiare ci vuole coraggio, e tanto. Altro che sfigati!.
ti è piaciuto questo articolo? leggi anche il 4° della seria: "si sa l'inizio ma mai la fine!": come capire se lo psicologo sta facendo bene il suo lavoro
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Dott. Marsilli Francesco
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